Una politica per il centro storico (e non solo)

Andiamo indietro nel tempo.

Sono i primissimi anni ’70 e Potenza è una realtà molto diversa dalla città che possiamo vivere oggi. L’abitato è ancora in larghissima parte aggrappato alla sommità del crinale che ospita il nucleo originale mentre la maggior parte dei nuovi quartieri ancora non esiste. La vita cittadina pulsa quasi esclusivamente nel nucleo antico, all’interno di quello che una volta era la cinta murata,  dove sono concentrati tutti gli uffici ed i servizi della città. Comune, Provincia, Prefettura, la neonata Regione, Tribunale, banche, negozi: chi ha qualche faccenda da sbrigare deve necessariamente recarsi in centro.

Piazza 'del sedile'
Piazza ‘del sedile’

Gli autobus fanno capolinea a Piazza Matteotti, ad invertono la marcia con una sorta di danza rituale nello stretto budello davanti al Municipio. Sostano sul lato della Banca d’Italia, dove fanno capolinea per diramarsi poi a raggiera verso le periferie cittadine.

Il centro è oggettivamente l’incontestato ombelico del mondo cittadino.

Ciò nonostante, già in quegli anni mio padre narrava dalle pagine de ‘Il Mattino’ del degrado, e non solo strettamente fisico, del centro storico:

ilmattino_19-1-73
Ad una lettura superficiale potrebbe sembrare un pezzo scritto oggi e non il 19 Gennaio del 1973.
Erano i primi anni di un decennio che ha visto una serie di eventi determinanti per la nostra comunità, culminati con la catastrofe del sisma del 23 novembre 1980. Avvenimenti che oggi sono in larga parte sconosciuti o dimenticati, nonostante il loro impatto sulle sorti della città, a riprova del fatto che la memoria storica di noi cittadini è sostanzialmente molto corta.

Io invece credo che ricordare sia importante, visto che ripercorrere gli eventi del passato ci mette in condizione di riconoscere eventuali errori e di farne tesoro, evitando così di ripeterli.

Come dicevo, all’inizio degli anni ’70 eravamo ad un punto di svolta per la nostra comunità. Erano gli anni del grande questione del risanamento del centro storico. Si dibatteva animatamente su quali fossero le cose migliori da fare per recuperare le zone degradate del centro: abbattere o recuperare?
Nell’ambito di questo processo l’amministrazione comunale, retta in quegli anni dal sindaco Antonio Bellino, commissionò al professore Corrado Beguinot l’incarico di realizzare un piano particolareggiato per il centro antico che definisse un percorso praticabile ove indirizzare l’evoluzione di quello che in quegli anni era ancora il cuore della nostra comunità.
L’illustre urbanista presentò i risultati del suo lavoro nel luglio del 1973, in un consiglio comunale esteso a larghe fette di quella che chiameremo oggi società civile. Ma le parole ed i dati che si snocciolarono in quell’aula lasciarono decisamente di stucco i potentini di allora. La relazione, infatti, non era per nulla tenera con la città, ed evidenziava errori su errori compiuti nel corso degli anni, a partire dal momento dalla elevazione del nostro abitato a ruolo di capoluogo. Riporto alcuni significativi stralci.

…nel 1817 veniva soppressa la porta Salza ed aggregato il Borgo alla città, mentre per tutto il secolo XIX sia andava profilando quella che sarebbe stata in tempi successivi la tematica principale del dinamismo urbano di Potenza: l’antitesi fra la struttura rurale-contadina di origine, e urbano-impiegatizia sopravvenuta con l’elevamento a capoluogo. Gradualmente, per le esigenze residenziali e rappresentative della nuova classe che mal si adattavano al povero tessuto preesistente, le case dei contadini diventano oggetto di demolizioni e sostituzioni edilizie, operazioni che caratterizzano centocinquanta anni di interventi sul centro antico di Potenza. Si tende ad emarginare dal centro i contadini , per far di quello la sede di una nascente borghesia mercantile, professionale, ed impiegatizia, mentre l’ambiente spaziale soffre, in questa lotta, ingiuste mutilazioni e ibridi accostamenti, dei quali il più vistoso è il nuovo rione Addone, ancor oggi in via di completamento.

L'area di rione Addone, fine anni '60
L’area di rione Addone, fine anni ’60

… la storia edilizia degli ultimi 25 anni registra una progressiva edificazione serrata intorno al centro antico, del quale è del tutto scomparso il profilo, sommerso da una muraglia di case di dieci, dodici piani che, sfruttando il dislivello, recinge il colle, non tralasciando il borgo meridionale, Montereale ed il rione Santa Maria, a nord del centro. (…) Nel contesto odierno, la struttura di una città organicamente correlata ai suoi tre aspetti principali: la comunità, lo spazio organizzato, il paesaggio, è alquanto difficilmente ravvisabile. Solo un cospicuo sforzo di interpretazione storica della «materia» fisica ed umana di questa città ci può condurre alla lettura di un sistema urbano che possegga qualche carattere di coerenza…

Partendo da questo presupposti, Beguinot delineava delle linee di evoluzione dell’impianto urbanistico in grado di garantire uno sviluppo organico della città nel quadro del suo nuovo ruolo di centro di coesione della Basilicata. Tre anni prima, nel 1970, si era infatti avviato nel nostro paese il processo di creazione delle Regioni a statuto ordinario, ed in città si riproponevano le stesse problematiche che avevano afflitto la nostra comunità con l’insediamento della macchina burocratico-amministrativa negli anni successivi al 1806. Per Beguinot il centro antico – non storico, perché quello era andato perduto – non era in grado di supportare la richiesta di volumetrie necessarie a questo processo evolutivo, chiuso come era fra due nuclei residenziali, che si andavano allargando sui crinali a nord ed a sud.

Potenza, primi anni '70
Potenza, negli anni sessanta, aveva grandi spazi di ‘espansione

Per Beguinot, quindi, il centro storico avrebbe dovuto cambiare pelle.

Si sarebbe dovuto svuotare del ruolo di punto focale delle attività amministrative liberandolo del peso degli uffici: elencando una lunga serie di attività incompatibili, il piano proponeva la loro ricollocazione in un centro direzionale e commerciale da creare in aree nelle immediate vicinanze della Stazione Inferiore delle Ferrovie dello Stato, che all’epoca erano ancora aperta campagna.
Nel contempo lo stesso documento proponeva di riempire il centro di una lunga serie di funzioni compatibili, che localizzava in strutture quali biblioteca, pinacoteca, auditorium, emeroteca, cineteca… in cui si potessero portare avanti  attività, eminentemente di natura culturale, finalizzate a donare un ruolo nuovo ai nostri spazi storici.

Per sostenere questa trasformazione di indirizzo Beguinot affermava che fosse indispensabile favorire anche la sostituzione del traffico da attraversamento con quello di penetrazione, proponendo una serie di infrastrutture necessarie a consentire la fruizione dei nuovi servizi da parte della collettività. Le rilevanti opere previste dal piano erano queste:

  • due aree di parcheggio sotterraneo sotto piazza Mario Pagano e Piazza Matteotti
  • tre terminal automobilistici – a corso Umberto, via Mazzini e via Acerenza
  • quattro parcheggi multipiano ai quattro angoli del centro, con una capienza di 1500 auto
  • la trasformazione del tratto urbano delle Ferrovie Calabro Lucane (oggi FAL) in metropolitana
  • la costruzione di una stazione nel tratto sotterraneo delle FAL in corrispondenza di Largo Isabella, che costituisse il raccordo fra la metropolitana ed il centro cittadino

L’accoglienza da parte dell’intellighenzia potentina non fu per nulla positiva. Certo, alcune soluzioni del piano – come la realizzazione di porticati per tutta la lunghezza di via Pretoria – erano molto difficili da digerire, specialmente in quegli anni. Il dibattito, a tratti rovente, andò avanti per svariati mesi, e basta rileggersi i giornali dell’epoca per comprendere quali fossero le forze in gioco. Non credo sia una malignità pensare che molte delle diffuse resistenze trovassero una motivazione nella stratificata miriade di interessi, grandi e piccoli, che il piano andava direttamente ad interessare.
Sta di fatto che del piano non solo non se ne fece sostanzialmente nulla, ma finì per essere praticamente dimenticato.

Rileggendo quelle carte dopo oltre quarant’anni, con il distacco dei posteri, c’è da constatare come molte delle analisi del prof. Beguinot si siano dimostrate fondate.

Il centro, che da antico è ritornato ad essere storico, si è naturalmente, ma sostanzialmente, svuotato delle funzioni che aveva in quegli anni. Uffici, banche ed enti vari hanno traslocato in periferia, ma in mancanza di una progettualità complessiva, lo hanno fatto alla chetichella, sparpagliandosi sul territorio in maniera del tutto disordinata. Il centro storico si è progressivamente svuotato di funzioni, ma senza che nessuno nel frattempo si sia preoccupato di governare il processo, assegnandogliene di nuove.

Anche sotto l’aspetto culturale il centro si è depauperato. Un esempio per tutti: negli anni ’70 ospitava tre cinema, l’Ariston, il Due Torri ed il Fiamma, senza considerare il Gloria. Di tutti questi, oggi ne è sopravvissuto uno solo. E’ vero che oggi  abbiamo il Museo Archeologico a Palazzo Loffredo, e che nel frattempo il Teatro Stabile è stato recuperato, ma sono elementi del tutto insufficienti a mantenere quella massa critica di presenze in grado di sostenere il centro nel suo ruolo di punto di aggregazione primario della vita cittadina.

Così come la perdita progressiva di funzioni, ruolo e presenza ha portato ad una sorta di diaspora commerciale, anche questa del tutto spontanea e non controllata. Il risultato è che in città la zona oggi più trendy per l’insediamento dei negozi – via del Gallitello – è l’antitesi di quella che dovrebbe essere un’area pensata per questo scopo, piena come è di barriere, cancellate, muretti, sbarre ma nel contempo deficitaria di marciapiedi e spazi per muoversi a piedi o in bicicletta.

E’ lecito supporre che se negli anni ’70 avessimo avuto un po’ più di coraggio e di visione del futuro, ed avessimo seguito, anche se in larga massima, le proposte del piano del prof. Beguinot, oggi Potenza sarebbe potuta essere una città migliore e più vivibile di quella di oggi?

In questi quarant’anni la nostra città non è stata certo ferma, ed è facile riscontrare le tracce di queste attività dalla trasformazione del territorio. Il terremoto ha scavato ferite profonde, che siamo riusciti in larga parte a risanare. La città si è ingrandita a dismisura, ma – ahimè – sempre in maniera disordinata. Sono stati fatti tanti interventi e sono state create tante nuove opere, e che siano considerate utili o inutili poco importa. Si è soprattutto continuato a riqualificare ciclicamente larghe fette dell’abitato.
A fronte di tanto fermento fisico, trovo invece molto difficile, se non impossibile, trovarne un equivalente in ambito sociale, nella definizione dei ruoli delle varie componenti del territorio o delle opportunità di crescita che la nostra città offre ai suoi abitanti.

Per me questa è la prova di come a Potenza sia sempre mancata del tutto una politica di ampio respiro, in grado di andare al di là della materialità delle cose, ma di delineare un percorso di sviluppo che avesse come primo obiettivo quello di migliorare la vita ed il benessere della nostra collettività. Abbiamo solo continuato a ragionare in termini fisici, di opere pubbliche, di soldi spesi: sono realtà che sicuramente servono, ma che se non sono inquadrate nel giusto contesto rischiano di diventare solo cattedrali nel deserto, scarsamente utili e difficili da sostenere economicamente.

Le scale mobili Santa Lucia
Le scale mobili Santa Lucia

Ma se le crisi sono momenti oggettivamente difficili, possono anche costituire fondamentali punti di svolta, se diventano lo stimolo a raccogliere le forze, costruire elementi di discontinuità con il passato e dare vita a nuove percorsi.
Quindi, se è innegabile che la nostra città stia vivendo una crisi importante, è altrettanto vero che questa, se opportunamente guidata, potrebbe costituire una preziosa occasione per cambiare metodo. Per coglierla, credo sia essenziale stimolare la partecipazione dei cittadini, partire dalla esigenze della popolazione per costruire assieme un percorso in grado di favorire la crescita, in tutti i sensi, del nostro territorio.
Non è qualcosa che ci possiamo attendere scenda miracolosamente dall’alto. Dobbiamo darci da fare tutti, ed in prima persona.
Senza un piano condiviso, di lungo respiro, che metta al centro dell’azione le persone, i ruoli e non gli spazi e le cose, continueremo imperterriti a perpetrare sempre lo stesso, atavico, errore.

Ma, come ci ricordava Sant’Agostino, errare humanum est, perseverare autem diabolicum.

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