Trovo strano, insolito ed atipico che un appuntamento in cui tutta la nostra comunità, almeno a parole, si riconosce finisca con cronometrica puntualità a diventare pomo della discordia, innescando polemiche a non finire.
i ‘Turchi’.
Noi tutti potentini andiamo fieri di questa strana rappresentazione. Probabilmente se chiedessimo ad ogni cittadino perchè esserne fieri, otterremmo risposte diverse. Tutti sappiamo che la tradizione si perde mella notte dei tempi, anche se in queste ore c’è chi si è addirittura azzardato a contarne le svariate centinaia di edizioni.
Ma in realtà la coscienza di cosa fosse concretamente un evento tradizionale tanto noto non è posi così diffusa. Le persone che possono ricordare direttamente cosa succedesse alla vigilia della festa di San Gerardo sono poche, e – purtroppo – sempre meno numerose. Ma sorprendentemente anche la cronaca si è dimostrata molto disattenta: le descrizioni dell’evento che in tanto tempo sono state scritte si contano giusto sulle dita di una sola mano.
E trovo strano che pochi si siano posti una domanda apparentemente banale. Come mai, un evento che si perpetua nei secoli, la cui fama ha travalicato i limiti dell’isolamento in cui la nostra città si è sviluppata nei secoli passati, abbia alla fine macchiato tanta poca carta?
Che fosse una manifestazione ben nota al di là del nostro hinterland è certo. C’è la testimonianza di Francesco Cappiello, giornalista de il Mattino, inviato dalla testata napoletana per descrivere un evento la cui fama erano giunta persino alla ex capitale. Cappiello prese parte a due distinte edizioni, una nel 1923, l’altra nel 27, lasciandoci due descrizioni con taglio diametralmente opposto, stroncando la prima ed osannando quasi la seconda.
Certo pure il fatto che a cavallo fra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento Potenza fosse molto attiva sul fronte pubblicistico. Sono almeno 20 le pubblicazioni che hanno raccontato la vita della nostra città in quei decenni, senza che nessuna – almeno per quanto mi risulta – abbia mai narrato quello che accadeva per le cuntane di Potenza nella sera che precedeva la festa del santo patrono.
Allora perchè i cronisti locali ignorano completamente, e per decenni, una manifestazione così nota da motivare un quotidiano importante come il Mattino ad di inviare un reporter nella sperduta Basilicata per raccontare una festa popolare?
Domanda non banale, a cui vedo una sola risposta logica. E’ stata ignorata perchè era la festa dei ceti più umili della popolazione, non certo della borghesia e dei (pochissimi) nobili. Per loro, la festa con la effe maiuscola era quella del giorno dopo, con la tradizionale processione. La sfilata dei turchi era, in una società che in quegli anni giungeva ad avere punte di oltre l’80% di analfabestismo, la festa di chi non aveva strumenti per tramandare ai posteri le proprie usanze e tradizioni.
La seconda guerra mondiale, prima, e l’urbanesimo poi, hanno radicalmente modificato il tessuto sociale da cui ‘i Turchi’ avevano preso vita. La tradizione, stanca, proseguì sino alla fine degli anni ’60, quando l’Amministrazione Comunale dell’epoca, sindaco Francesco Petrullo, decise di rivitalizzare la manifestazione, dandole un taglio teatrale.
Ricordo bene il lavoro preparatorio: nei laboratori comunali, che in quegli anni si trovavano a nord di Montereale, più o meno nel luogo dell’attuale piscina, furono costruiti gli elementi chiave – nave e tempietto – tutt’ora in uso. Per consentire il transito della nave per via Pretoria furono addirittura spostate le linee elettriche e telefoniche, che all’epoca erano ancora aeree. E, nonostante si trattasse di una ricostruzione, la partecipazione fu imponente, come le immagini dell’epoca testimoniano.
Era evidente, però, che lo spirito che aveva dato vita alla manifestazione tradizionale non esisteva più, come progressivamente andavano sparendo dalla città anche i potentini che l’avevano animata. Con il corso degli anni questo sottile, e tenuo, filo è andato del tutto reciso. E’ rimasta la drammatizzazione, ma si è smarrito del tutto di vista il punto di partenza. Rappresentazione per rappresentazione, si sono iniziati ad inserire elementi che con la nostra cultura non avevano alcun punto di contatto, ma facevano scena. Qualche anno, di turchi non se ne vedeva traccia. Altri anni, invece, siamo giunti ad inondare via Pretoria di nenie arabe. Esperimenti, tentativi, spesso improvvisazioni: ne abbiamo viste di tutti i colori. Anche i pochi elementi comuni – la data, Civudd’n, la Nave, il Tempietto – hanno subito trasformazioni. Civudd’n è diventato ufficialmente Cipollino, la Nave è stata retrocessa al ruolo di barca, una manifestazione assolutamente laica ha perso la sua laicità. D’altro canto, il fatto che si svolga la sera prima della festa, in cui le celebrazioni religiose hanno il loro culmine nella processione con la statua del santo, è abbastanza significativo.
Era asupicabile mettere un punto fermo a questo moto ondivago, e la cosa è giunta durante l’amministrazione Santarsiero. Il Consiglio Comunale decise infatti di affidare ad una commissione scientifica il compito di redigere un disciplinare della “Storica Parata dei Turchi”, in modo da mantenere una coerenza di fondo tra le varie edizioni. La commissione stabilì di ridefinire i connotati della manifestazione in chiave storiografica. Nulla questio al suo lavoro, ma storia, mito, leggenda e tradizione sono cose assolutamente differenti. Soprattutto perchè la Sfilata dei Turchi era retaggio pressochè esclusivo di una parte del nostro popolo che non ha potuto scrivere la sua, di storia. Di persone umili e modeste, che potevano vedere sete e broccati solo in rare occasioni.
E’ più che evidente che i ‘Turchi’ oggi non possono più essere una manifestazione spontanea, ma – lavorando a tavolino – si sarebbe dovuto attingere alla tradizione popolare, non alla storia. Il risultato è che per me oggi ci ritroviamo con una “Storica Parata dei Turchi” sicuramente bella, ma che cozza fortemente con la genesi, motivazioni e significati della ‘Sfilata’. Una parata storica in cui la presenza dei citati elementi chiave non è sufficiente a differenziala significativamente da una delle tante sfilate in costume che si svolgono nella nostra bella Italia.
Ma tant’è: la strada è segnata ed è giusto mettersi l’anima in pace.
Fine delle polemiche?
No. La realtà è sempre diversa dalle aspettative, e non bastano regolamenti e codicilli a garantire lo svolgimento ordinato delle cose. Sta di fatto che quest’anno le contaminazioni culturali erano così tante che era addirittura dificile tenerne conto.
Ma le polemiche non servono a nulla, specie se sono circoscritte ad un gruppo ristretto di persone. La stragrande maggioranza dei nostri concittadini, in effetti, non se ne preoccupa più di tanto, va giusto a vedere la sfilata, senza preoccuparsi se fra banomme, nobildonne e turchi spunta pure un carretto siciliano o un doppio San Gerardo.
Poi, è certo che – tempo qualche giorno – dissapori e polemiche si sopiranno e finiranno nel dimenticatoio.
Per poi scoppiare immancabilmente alla prossima edizione.
Scorcio notturno dell’antica Sfilata dei Turchi al chiarore delle iacchere, di Antonio Masini
dalle illustrazioni del depliant dell’edizione 1967, che i curiosi possono scaricare qui.
E la iacchera? non è un elemento tradizionale?
L’illuminazione pubblica a Potenza è stata abbozzata solo nei primi anni del ‘900. Le ‘ iacchere avevano quindi una funzione tecnica, quella di illuminare il percorso della manifestazione. Riviello le descrive dettagliatamente:
“Nella vigilia, in sull’ora del vespero, si portavano in città, a suono di pifferi, di tamburi, o di bande, le iaccare (fiaccate) , cioè grandi falò, fatti di cannucce affasciate attorno ad una trave sottile e lunghissima, per divozione di qualche bracciale possidente, di proprietario vanitoso, o per incarico dei Procuratori della festa. (…) Queste grandi fiaccole erano i fari fiammeggianti della festa per farli vedere da lontano. Ardevano tutta la notte, e illuminavano a giorno tutto il vicinato, la cui gente godeva e si divertiva a quella vista. (…) Anzi nella vigilia a sera, appena cominciava a farsi scuro, in ogni cuntana, o vico, in ogni larghetto e lungo tutta la Pretoria si accendevano centinaia e centinaia di fanoi (falò), cioè ammassi di sarmenti, cannucce, scroppi, e ginestre secche e verdi, in guisa che tutta la città pareva andasse in fumo e fiamme, costituendo ciò la caratteristica e tradizionale illuminazione di quella festa.”
Le iacchere ed i fanoi servivano a fare luce, in una città che in tempi normali era sempre buia. E quindi non erano parte della sfilata, ma venivano posizionate ed accese prima:
“Le iaccare si innalzavano nei luoghi più larghi; in Piazza, innanzi alla Chiesa di S. Gerardo, avanti a lu Palazz’ di lu Marchese, (oggi Liceo), a Portasalza, di fronte a lu castiedd (Ospedale S. Carlo). Per accenderle, la vigilia a sera, bisognava arrampicarsi sino alla cima, e non senza fatica.”
Coò non toglie che il loro trasporto aveva un suo rituale, che è l’unico elemento tradizionale che è sopravvissuto alla revisione storica:
“Il trasporto di una iaccara formava una vera scena di brio e di festa per plebe e per monelli. Molte coppie di contadini giovani e robusti la portano sulle spalle. Sopra vi sta uno, vestito a foggia di buffo o di pagliaccio, che tenendosi diritto ad un reticolato, o disegno di cannucce, su cui è posta tra foglie e fiori la fiura, o immagine di S. Gerardo, grida, declama, gesticola e dice a sproposito, eccitando la gente a guardare e ridere, per accrescere l’allegrezza della festa. E la gente si affolla per vedere, fa largo, e ride tutta contenta. Di tanto in tanto ì portatori si danno la voce per regolare le forze e i passi, si fermano per ripigliare un po’ di lena ed asciugarsi il sudore con una tracannata di vino; giacchè vi è sempre chi li accompagna col fiasco e li aiuta a bere, senza farli muovere di posto.”
Ma, d’altro canto, è lo stesso Riviello ad affermare quali siano gli elementi tradizionali:
“Senza la nave, i turchi e il carro non si può imaginare la festa di S. Gerardo. Sarebbe toglierle il carattere di originalità e di brio popolare. E’ una usanza tradizionale e festosa, che non ha punto di confronto con altra qualsiasi della Provincia e di fuori.”