Io sto con l’Italiano.

Nel vorticoso turbinio di notizie legate agli eventi di questi giorni è passata un po’ sotto silenzio quella relativa alla dichiarazione del ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Francesco Profumo, che ha annunciato l’apertura in sei università italiane delle iscrizioni alle prime facoltà in lingua inglese. In queste corsi di studio, comunicazioni ed esami saranno tutti tenuti nella lingua di Shakespeare.
Stando alla scarna dichiarazione del ministro, questo è necessario per  «una maggiore apertura internazionale anche nel settore dell’istruzione».  «Per migliorare la nostra competitività è necessario interiorizzare maggiormente l’appartenenza all’Europa. Gli studenti stranieri nelle nostre università sono appena il 2.5%, un dato troppo basso che dobbiamo assolutamente aumentare». Profumo peraltro non è nuovo a queste posizioni: già nel 2007, quando era rettore del Politecnico di Torino, aveva cancellato due corsi di laurea in lingua italiana per riaprirli in lingua inglese.

Sono questi i problemi del sistema delle università italiane (e della scuola in generale)? Non sembrerebbe proprio. Nel mese di gennaio il Consiglio Universitario Nazionale, Cun, ha pubblicato un interessante Rapporto sulle emergenze del sistema (può essere consultato qui), che fotografa una situazione preoccupante, in cui il dato di maggior rilevo è la costante e progressiva diminuzione del numero dei ragazzi italiani che tentano il cammino universitario.

Di fronte a dati tanto allarmanti, che fotografano impietosamente un paese in costante declino, la scelta di favorire gli studenti stranieri appare alquanto immotivata. E lo è ancor di più tenendo conto che iniziative simili creano, nel contempo, un ostacolo serio ai tantissimi adolescenti italiani che non hanno la fortuna di avere una perfetta padronanza della lingua inglese: competenza per nulla facile da acquisire nelle scuole pubbliche italiane.

Quello che però è ancor più preoccupante è che qualora passasse il concetto che nell’Università, che costituisce la punta avanzata della cultura di ogni nazione evoluta, è lecito abbandonare la lingua natia per il solo motivo di essere compresi nel mondo, si decreterebbe ipso facto la fine della nostra cultura e, per riflesso, della nostra lingua, che rischierebbe di ridursi ad un dialetto morto.

Credo che sia sotto gli occhi di tutti quanto la nostra Lingua sia già troppo contaminata da anglicismi del tutto gratuiti. Per me è inconcepibile che Stato Italiano abbia definito per tanti anni ‘Ministero del welfare’ quello che è nella nostra lingua è sempre stato delle ‘Politiche Sociali’, o devolution un decentramento amministrativo. Giusto due esempi di fenomeni illogici – rimane per me un mistero quali ne siano state le motivazioni  – e costosi – visto che ad ogni cambio di nome bisogna rifare almeno cancelleria e siti web, buttando via il vecchio.

E dire che a suo tempo, quando i Francesi votarono la famosa legge Toubon per la messa al bando dei termini esterofili, sorrisi pensando al nazionalismo dei nostri cugini.
Rimane però un fatto oggettivo che la contaminazione linguistica, se supera i livelli fisiologici della normale evoluzione, non solo porta immancabilmente ad un depauperamento della nostra tanto bistrattata cultura nazionale, ma anche una riduzione del senso di identità nazionale.
E per me questo è un serio problema in un momento storico in cui noi italiani dovremmo avere la capacità e la forza di mettere da parte le divisioni e le fratture createsi dell’ultimo ventennio, per trovare il modo di fare sistema per superare la crisi e per riprendere il nostro posto nel novero delle nazioni più avanzate.

Mi sia consentito, quindi, di dubitare fortemente sul fatto che la soluzione ai mali dell’università si possa trovare con le facoltà in lingua inglese, inevitabilmente destinate ad essere frequentata da una minoritaria elite di persone fortunate. A me sembra più produttivo cercare le cause lontane nella struttura globale della Scuola Italiana, che è stata prima lasciata a se stessa, e poi progressivamente e sistematicamente smantellata. E sufficiente leggere con attenzione i dati del rapporto Eurydice 2012 (scaricabile dal sito di Indire, qui) per comprendere la nostra posizione nell’Unione Europea.

La realtà è che anche nel campo della istruzione è mancata completamente una politica focalizzata al raggiungimento di un obiettivo di lungo termine. Abbiamo smantellato, per ragioni di bilancio, modelli funzionali e collaudati – come il modulo nella scuola primaria. Abbiamo sbandierato come riforme dei semplici cambi di nome. Abbiamo prosciugato le risorse alla Scuola obnubilati dal feticcio della spending review (che strano, un termine anglosassone al posto del volgare tagli). Abbiamo sminuito autorità e dignità della classe docente.
Tutte azioni che a me pare abbiano avuto un impatto essenzialmente negativo sul complesso dell’istruzione, nonostante ci siano state presentate come un percorso necessario di crescita verso il progresso e la modernità.
Ma, mi chiedo: cosa ne resta della scuola delle tre ‘I’? Come può mai funzionare un sistema di istruzione in cui in un Liceo Scientifico, in un arco temporale di cinque anni, non  sia in grado di offrire agli studenti una singola ora di laboratorio o la possibilità di fare un banale esperimento di Fisica?

Non è vero che il “nostro non é un Paese sufficientemente scientifico”, come afferma Profumo. Siamo invece sicuramente un paese che non investe (e, sottolineo, investe e non spende) quanto dovrebbe, sia in termini di risorse economiche, sia in termini di promozione, per un settore che è superfluo definire strategico per il nostro futuro. Gli statunitensi hanno un detto molto chiaro e diretto: There ain’t no such thing as a free lunch – non si ottiene nulla per nulla. La Scuola Italiana è vecchia e da rifondare, per portarla al passo con i tempi. Se non investiamo nelle nuove generazioni, cioè in coloro che saranno il cuore pulsante di società ed  economia italiana, come potremo mai crescere?
Non è attirando studenti dall’estero che l’Italia progredirà. Il nostro problema è l’esatto opposto: evitare che le nostre menti migliori emigrino perché non hanno prospettive per il loro futuro in Italia,  sia perché sono figli e figlie della nostra terra, sia perché andando via portano con sé anche un pezzo di futuro della nostra nazione.

E per farlo dobbiamo avere consapevolezza della nostra identità culturale, evitando inutili contaminazioni e ben consci che la nostra cultura non è seconda a nessuno.

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